È difficile da descrivere la situazione che sta accadendo negli Stati Uniti nelle poche righe che concedono un’articolo. Gli States sono sempre stati un mondo a sé stante, fondati su dei valori che affondano le loro radici nelle uniche due grandi guerre che hanno combattuto nei loro territori: la Guerra d’Indipendenza e la Guerra di Secessione. È una storia breve, ma intensa, quella degli Stati Uniti, che ha lasciato comunque profonde spaccature nell’animo di ogni americano: che sia bianco, nero o di origini ispaniche, che viva a New York, Austin o Minneapolis.

Da un momento all’altro, qualcosa doveva scoppiare. È una dottrina molto conosciuta nel Nuovo Mondo quella della “seconda guerra d’indipendenza”, in parte descritto come scontro finale in grado di liberare gli States dall’attuale sistema che lo sorregge, in parte in grado di cambiare per sempre il suo volto culturale. E anche se probabilmente non sarà questa la volta in cui ciò accadrà, qualcosa all’orizzonte pare muoversi; con tutte le complicazioni portate dal difficile momento storico che stiamo attraversando.

Non mi piace parlare di Black Lives Matter: non è la definizione giusta di quello che sta accadendo negli Stati Uniti. Non ci sono soltanto le minoranze dietro alle movimentazioni che stanno scendendo in piazza in questi giorni. E realisticamente, non è nemmeno il modo giusto di affrontare la questione. Perché quello che si sta verificando a Washington ed in tutto il Paese, in fondo, è un generalizzato American Lives Matter, ed avrà delle serie conseguenze.

Innanzitutto, questa nuova polarizzazione porterà ad un accrescimento dell’odio tra la popolazione: bianchi contro neri, neri contro bianchi, neri contro i neri che non odiano i bianchi, con gli ispanici che rimarranno odiati da tutti, tolto forse dagli ispanici stessi. E in questo clima di tensione, difficile non immaginarsi lo stesso scenario economico e sociale degli Stati Uniti non subire una drastica trasfigurazione. Già, tenuto considerato le complessità mondiali, la crisi dei commerci, la pandemia, il lockdown e le crescenti tensioni con la Cina (dimenticavo, anche i cinesi in America li odiano tutti, compresi gli afroamericani che stanno sfilando proprio in queste ore).

Un filo elettrico carico di tensione tiene appesi gli Stati Uniti, almeno fino al prossimo novembre, quando dalle urne usciranno i Grandi Elettori che decideranno il prossimo presidente federale. Una battaglia a due tra Donald Trump — il razzista — e Joe Biden — il buonista che paga le cauzioni. Una battaglia tra due due visioni differenti di fare economia e di esportare l’idea di Stati Uniti nel Mondo. Tutti e due, però, accomunati da un teatro di battaglia (Minneapolis) e da un ordine perentorio: vincere.

E in questa situazione, difficile non immaginarsi un Paese destinato alla stagnazione per questi lunghissimi sei mesi che lo separano da un traguardo che come non mai sarebbe un punto di partenza, e nulla più. Un calderone dal quale potrebbe uscire il nome di Dio o il nome di Satana (chi per voi è uno dei due, lo lascio al libero arbitrio. Entrambi in fondo potrebbero significare una vittoria e al tempo stesso una sconfitta per almeno 3 o 4 ideali di base americani).

L’unica certezza, purtroppo o per fortuna, è che da questa stagione di rivolte gli Stati Uniti ne usciranno fortemente cambiati. Forti sono le immagini di bande afroamericane armate che ricordano i bui anni passati, come forti sono le immagini di un uomo de facto giustiziato dal libero arbitrio della polizia. E soprattutto, sono immagini che qualsiasi americano non vorrebbe mai più vedere — a meno che non sia un deputato repubblicano, democratico, forse George Soros e un invasato suprematista bianco.

NoSignal Magazine

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