Caro nonno,

É da un po’ che non ci sentiamo, eh? L’ultima lettera che ti scritto era del 2012. Eri in ospedale, io una bambina che abbracciava l’adolescenza. Ti avevo scritto per chiederti di tornare a casa. Sai, quella emorragia cerebrale ti aveva cambiato per sempre e forse aveva già deciso il tuo destino. Mamma e papà lo sapevano, io e Matteo no. O forse Matteo lo sapeva e non me lo diceva. Eppure, è stato proprio lui quella mattina del due gennaio a dirmi che eri morto. Per la prima volta aveva dovuto mettersi una maschera da adulto e dirmi questa cosa. Ha scelto di dirmela così, diretta. Ma poi è stato con me mentre piangevo. Stava in silenzio ma condivideva con me questo dolore.

 Quando te ne sei andato mi ero ripromessa di non piangere né al funerale né al rosario. Volevo fare come te che tenevi dentro ogni cosa, ti costruivi la tua corazza e continuavi a camminare. Io ci ho provato, nonno, a essere come te. Volevo farcela per salutarti in questo modo, un po’ come a dire: «vivo questi momenti come se vivessi ancora qui con noi.». E purtroppo non ce l’ho fatta, ho già ereditato da te gli occhi azzurri, non potevo pretendere altro.

Dopo quasi dieci anni dalla tua partenza, ti riscrivo. Questa volta per necessità. Non ho bisogno di favori né tanto meno di consolazioni. Ho bisogno di dirti ciò che sento. Dentro di me vive quella bambina che non ha stretto troppe volte la mano a suo nonno quando stava male ma anche la donna che non sa cosa darebbe per rivedere suo nonno.

É un periodo che ti penso spesso. Ti ho fisso nella testa, con quella canotta azzurra a zappare l’orto. Ho l’immagine fissa di te che pranzi con lo sguardo rivolto verso la televisione. E come una cantilena ho la voce di nonna che mi dice «metti il telecomando e il portaocchiali vicino al piatto di nonno.» Tutti messi bene e in ordine.

 Nulla per te era messo a caso, tutto aveva il suo posto nel mondo. Ogni cosa trovava il suo spazio per natura o per necessità. Mi ricordo quanto ti arrabbiavi quando la gente non metteva gli oggetti da lavoro a posto ma li lasciava sparsi in giro. Eri un uomo ambizioso, alla ricerca di una perfezione sempre sfiorata ma mai toccata per davvero. Forse è proprio questo il senso della vita: puntare alla perfezione senza però in realtà volerla mai ottenere. La perfezione permette di vedere le cose da vicino.

Tu preferivi sempre stare un passo indietro, osservare ma anche comprendere. Come a messa la domenica, ti sedevi sempre in fondo, nei posti a lato. Quello era il posto che ti permetteva di ascoltare la predica del sacerdote e trasformarla in un tuo pezzo di vissuto, in una tua perla di saggezza. Che poi in realtà la tua più grande perla di saggezza era il silenzio. Sembrerà una sciocchezza, una contraddizione ma è così. Hai insegnato alla tua famiglia i più grandi insegnamenti senza mai parlare troppo. Ma semplicemente agendo. I fatti pesano e contano più di tutte le parole che ho scritto fino ad ora. Lavoravi tutto il giorno nel tuo orto senza mai lamentarti, preparavi colazione a nonna ogni mattina in punta di piedi. Eri un padre presente, sempre pronto all’ascolto. Quando dopo il lavoro, papà veniva a parlarti, tu c’eri. Tu ascoltavi. Tu annuivi. Eri un suocero attento e riconoscente. Parlavi a mamma con occhi di ammirazione, la ringraziavi tutte le volte che ti portava in ospedale per le visite. Eri un nonno fiero dei tuoi nipoti nonostante fossimo piccoli. A Matteo hai trasmesso l’amore per la terra. È lui che porta avanti l’orto. Lui che annaffia ogni giorno il tuo ricordo.

Vorrei scriverti e dedicarti ancora tanto ma le lacrime aumentano e le parole si chiudono in loro stesse. Ci manchi tanto nonostante siano passati molti anni dalla tua partenza. A volte penso di essermi abituata ma poi guardo la tua foto in cucina da nonna e nulla, ho già gli occhi lucidi. Ti sorrido ogni volta e ingenuamente spero tu possa ricambiare. Sai, sono sempre quella bambina che rideva a crepapelle quando tu ti nascondevi e facevi il verso del gatto. Sono sempre quella bambina che, entrata in chiesa, guardava suo nonno seduto di lato e orgogliosamente pensava «c’è anche nonno a messa». Non vedevo l’ora finisse solo per venirti a salutare (e anche per sentirmi dire dai tuoi amici «che bella nipotina che hai Nuciu»). Ahimè sono anche quella ragazzina che non ti è venuta a trovare spesso quando eri in casa di riposo, quella che non ti ha mai detto addio. C’era l’occasione per farlo, ma avevo paura, paura di accettare una realtà ormai decisa.

Quanto sarebbe bello se potessi leggere queste parole, invece rimarranno chiuse nel mio cassetto insieme alle altre mille che leggo imbarazzata e che non invio mai. La tua è un po’ difficile da inviare però. Ma, se per qualche strano destino, riuscissi a leggere questa lettera, voglio che tu sappia che ti sto salutando.

Le mie parole mi riportano indietro nel tempo e mi permettono di fare ciò che non ho mai fatto. Tre gennaio 2013: quasi singhiozzando porto le mani sulla bara, guardo la ghirlanda di fiori su cui c’è scritto «Matteo e Giorgia» e sottovoce ti dico «Ciao nonno, ti voglio bene»

La tua Gio

  
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