Il 30 ottobre 2022, nel teatro Dravelli di Moncalieri, è andato in scena lo spettacolo Vertigine 2.0, con regia di Monica Luccisano, sound design di Matteo Castellan, disegno luci di Alberto Giolitti e disegno scena di Nathalie Deana. Al centro della scena Luana Doni, giovane attrice e ricercatrice in Letteratura francese. Dopo lo spettacolo, Luana ci ha dedicato del tempo per rispondere ad alcune domande sulla carriera di artista e sulla creazione del personaggio che ha fatto magistralmente suo.

Ciao Luana! Parlaci un po’ delle tue esperienze di attrice teatrale, come ti sei formata?

Ciao! In realtà non nasco attrice teatrale, ma ballerina. Ho studiato tanti anni danza classica e contemporanea al Teatro Nuovo. Al liceo avevo cominciato teatro di parola e teatro fisico con Laura Morandini e Marco Alotto. Sono andata avanti tre, quattro anni, partecipavo ai festival ma non avevo mai pensato di farne una professione. Ho finito il liceo linguistico, poi ho proseguito i miei studi laureandomi in Lingue e letterature moderne. Prima di cominciare un dottorato di ricerca, mi sono voluta riavvicinare al palcoscenico con la compagnia Doppeltraum Teatro, di cui faccio attualmente parte. Ho ritrovato questo amore che avevo lasciato chiuso nel cassetto per poi cominciare a lavorare professionalmente con loro dal 2016. Ho avuto anche esperienze cinematografiche facendo alcuni cortometraggi indipendenti.

Luana Doni

Attualmente lavoro con Alberto Gozzi, che è un regista di prosa nel panorama torinese. Collaboro con lui da circa 7 anni. In pratica, rimango sospesa tra queste due anime, da una parte quella di attrice e dall’altra quella di ricercatrice. Per questo motivo, di solito, mi definisco una ‘ricerc-attrice’. A 21 anni avevo abbandonato il mondo della danza. L’ho ripresa con l’esperienza di Vertigine 2.0 perché la regista voleva inserire una parte più fisica. Poi, ovvio, mi continuo ad allenare, danzo sempre nella mia testa. Solo, non lo faccio più da professionista.

A proposito…com’è nato Vertigine 2.0?

Monica Luccisano mi aveva contattata per rimettere in scena uno spettacolo che lei aveva portato anni fa con un’altra attrice. Quello spettacolo si chiamava Vertigine. Ci siamo rese conto, però, che ogni persona che si affaccia alla scrittura drammaturgica affronta diverse fasi della vita. Magari quello che scrive in un certo momento muta in qualcos’altro, col passare degli anni. Monica è una persona molto passionale, ha notato che questa esperienza si stava evolvendo in altro. Hanno influito anche il mio modo di recitare, il mio passato di danzatrice, delle suggestioni che ci stavano arrivando dal mondo contemporaneo e dalla società in cambiamento.

L’idea, quindi, è stata passare a un altro episodio di Vertigine, come fosse la seconda stagione di una serie: mentre la prima era incentrata su un trauma legato all’infanzia, questo secondo capitolo era più legato a un trauma identitario. Si tratta di qualcosa che riguarda una percentuale bassissima di persone nel mondo, che è quello dell’ermafroditismo – o intersessualità. Il copione è stato scritto e rimaneggiato, sono stati tolti e aggiunti elementi, le coreografie sono state create da me, anche di getto. Non c’erano coreografie fisse.

Luana Doni in Vertigine 2.0

Come hai affrontato lo studio del personaggio?

Non è stato semplice, avevo paura di prendere troppo sottogamba la cosa, di non rispettare drammi esistenziali di cui posso soltanto parlare per immaginazione, ma che non vivo realmente. Non si trattava di transessualità, di cui c’è molto materiale letterario e cinematografico. L’ermafroditismo è una situazione diversa, rimane un fenomeno molto complesso. Volevo cercare di non rappresentare una ‘macchietta’.

Una delle cose che ho fatto è stata cercare di scorporare la mia esperienza di individuo da quella del personaggio, ho cercato di evitare di dire «E se io fossi nata così?». Il senso doveva essere cercare un appiglio nel testo che rimandasse a una mia esperienza personale. Il lavoro che ho fatto è stato prendere il mio lavoro di danzatrice, l’ambiente accademico di danza classica e tutto quello che ne consegue: le richieste di una certa fisicità e i problemi di disturbi alimentari di cui soffrono la stragrande maggioranza di artiste. In parte anche io ne ho sofferto, in maniera molto lieve. Ho cercato di riportare la mia testa indietro e di sentire quella sensazione sul corpo, il mio sentirmi inadatta, avere una parte che manca, sentirmi mostruosa in qualche modo.

Poiché incarno un personaggio che ha un problema identitario, che nasce con entrambi gli organi riproduttori ma poi vive tutta la sua vita come una fanciulla, ho cercato di non mascolinizzarlo troppo. Ho cercato di renderlo fiero di essere donna, ma non fiero di non aver potuto scegliere. Parliamo di un soggetto con cui è molto difficile avere a che fare. Non ha un buon rapporto coi genitori, in classe è problematico, molto arrendevole, non capace di rapportarsi con il mondo, anche capriccioso. La scelta di incarnare un’androginia è supportata dalla volontà di rappresentare un neutro: i lineamenti del volto sono più marcati grazie al trucco, gli abiti non sottolineano alcuna forma. Il testo si chiude tornando all’infanzia, in quella frazione di secondo in cui ci sentiamo tutti dei neutri. Pensavamo fosse una scelta elegante per chi ha vissuto l’esperienza.

Qual è il conflitto del tuo personaggio?

Ci sono due conflitti: uno, alla base, è quello Io-Mondo, che è alla base, credo, di qualsiasi identità. E poi quello Immagine dell’Io-Realtà dell’Io. Il mio personaggio è una vittima di se stesso: se non viene accettato, si chiude. Ma questa non è vita: io esisto, io vivo. E ho il diritto di farlo nel modo in cui per natura sono nat*. Monica voleva proteggerlo, io volevo portarlo al macello. Le vertigini non sono causate dall’esterno, sono dentro di me, e nel momento in cui me ne accorgo, si genera tutto il dramma. C’è, quindi, un conflitto esterno che nasce dall’abitudine sociale di considerare sbagliato tutto ciò che è diverso dalla norma, ma anche un conflitto interno che si risolve col coraggio di manifestare apertamente la propria diversità.

Hai distrutto i cubi in tre momenti precisi, c’è un motivo?

La prima barriera, cioè il primo cubo, si toglie nel momento amoroso con la prima esperienza di auto-erotismo; in generale, per la crescita di un individuo, è una delle fasi più dirompenti di maturazione prima della morte. Lì, la testa comincia ad aprirsi, acquisendo coscienza mentale e intellettuale. Il cubo medio è quello relativo alla zona del basso ventre, la parte più problematica, quella dove sono stati fatti più interventi. Parliamo del simbolo della diversità, che fa fatica a sparire. Sparisce nel momento in cui io, cinicamente, entro nell’età adulta con la visita ginecologica. Raggiunge l’apice della coscienza fisica. Lì cambio completamente registro di durezza anche nei confronti dei miei genitori, da vittima divento carnefice. L’ultimo cubo è l’ultima barriera con il mondo, quello che mi separa dalla vita vera.

A delle ipotetiche persone che leggeranno le tue parole e che si ritrovano nell’esperienza del tuo personaggio, cosa diresti?

Mi è rimasta in mente una frase di una ragazza transessuale che è venuta a vedere Vertigine 2.0: «Vorrei tanto mandare i miei genitori a vederlo». La cosa che mi sento di dire ai ragazzi e alle ragazze che vivono questo dissidio identitario è di parlare alle famiglie, e di chiedere di rivedere il loro concetto di normalità, di interrogarsi se quello che fanno lo fanno per la loro stessa immagine o per i figli.

La felicità di un individuo è più importante dell’immagine. Spesso, quando c’è un’esperienza di coming out c’è anche paura da parte dei genitori che il figlio possa soffrire. Ma se tu accetti tuo figlio per quello che è, stai certo che non soffrirà. Forse soffrirai tu, perché ti eri fatto un’idea. Quello che penso è questo: viviamo in un mondo ancora in fase di maturazione per quanto riguarda l’accettazione della diversità, ma partendo dalle famiglie questa cosa è molto più semplice.

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