Da quando l’Italia ha invertito drasticamente il proprio approccio verso l’accoglienza degli immigrati un’ondata di critica sono piovute sull’operato del Governo, definito anche con termini che includono “fascista”, “terrorista” e “razzista”.

Oltre alla lunga fila di critiche interne al Paese, il più delle quali mosse da coloro che dall’immigrazione hanno tratto un vero e proprio business che ha favorito principalmente le proprie casse personali, anche i politici del resto dell’Unione Europea, escluso il blocco di Visengrad, si sono dichiarati contrari all’approccio tenuto da Roma. E’ però interessante notare come coloro che hanno aspramente criticato l’operato si siano rivelati però riluttanti ad accettare una spartizione dei migranti, in virtù degli accordi di Dublino. Poco importa tuttavia che tali accordi furono firmati in un periodo del tutto diverso da quello odierno, dove l’immigrazione era contenuto e del tutto gestibile dai Paesi di frontiera: in quanto firmati, essi sono legge. Vero da un lato, assolutamente ingiusto e sbagliato dall’altro.

Le parole di Macron sono molte dure, quasi quanto i suoi respingimenti alla frontiera con l’Italia di chi valica il confine. Lo stesso Primo Ministro olandese Mark Rutte si rivela estremamente interessato alla messa in salvo dei migranti, a patto però che essi non vengano inviati in attesa di ingresso al largo del porto di Rotterdam. Tutto in virtù degli accordi di Dublino.

Quanto a lungo però l’Italia sarà davvero in grado di affrontare il difficile compito dell’accoglienza, non solo sotto il piano economico ma anche dal punto di vista sociale? Perché la verità è da ricercarsi anche nella falsità delle posizioni, di ambedue le parti, di chi pratica politica, seduto in comodi salotti di ville aristocratiche fuori dalle città, dove (parole, forse ironiche o forse vere, di Vittorio Feltri) al limite la manodopera che si paga qualche euro in meno può fare pure comodo. La verità è da ricercarsi nelle periferie della città, dove si gioca la battaglia dell’integrazione sull’esclusione. In un mondo perfetto, tutti riuscirebbero ad integrarsi e tutti accetterebbero il loro nuovo status acquisito. In un mondo meno perfetto, nel quale l’Italia si erge a simbolo, alle volte prevalgono esclusione e discriminazione. Italiani verso stranieri, stranieri verso italiani, a seconda di chi in quel luogo è in maggioranza.

Una immigrazione incontrollata e che non promette a chi arriva una dignitosa posizione lavorativa non solo non integra, bensì porta ad una crescente esclusione ed alienazione dall’ambiente sociale ed economico del Paese. Tutte considerazioni che, da chi è pro accoglienza, vengono abilmente nascoste. Come dall’altra parte viene nascosto l’obbligo di salvare sempre chi è in difficoltà, anche se economicamente negativo.

La vicenda della Sea Watch e di Carola Rackete è solo l’ennesima delle situazioni paradossali che si sono create nei nostri mari. Che la Libia non sia un Paese idoneo al salvataggio di vite umane è scontato, in quanto costantemente in guerra dalla (ai posteri l’ardua sentenza sull’Eliseo) caduta di Gheddafi. Strano è però come venga considerato in pace solo quando si parli di interventi militari per ristabilire la pace, in quanto territorio sovrano (di circa una quarantina di auto-proclamati Presidenti Democratici della Libia, che in realtà non sono altro che signorotti della guerra locali, peraltro dai dubbi poteri). Anche sotto questo aspetto però le Sinistre soprattutto appaiono contrariate, sebbene dalle Destre non siano condotti avanzamenti sul terreno delle ostilità, cui discorsi si limitano ad accenni per il consenso popolare.
Mentre questi discorsi vengono portati avanti, persone continuano a recarsi in Libia, finendo nei campi di accoglienza, spesso dalle dure condizioni, viaggiando quindi in precarie condizioni in mare, con l’auspicio di trovare o la morte, o le ostilità dei locali. Qualunque sia la nostra posizione sull’immigrazione clandestina, è questo che vogliamo offrire a degli umani che affrontano la morte per giungere nel nostro Paese?

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