Passato, presente e (forse) futuro della rivista musicale più famosa in Italia.

Illustrazione di Andrea Ghiglia

Stavolta non vorrei, ma mi tocca essere sincero. In questi giorni mi sono scervellato per capire quale film, serie TV o album recensire. Certo il materiale non mancava, penso all’ultima creatura targata Black Mirror, “Bandersnatch”, o la nuova porcata cinematografica della DC Comics, “Aquaman” (non vi nascondo che mi sarei divertito non poco a stroncarlo). Tutto bellissimo, finchè non vengo a conoscenza di un infausto evento, per non dire lutto vero e proprio. Rolling Stone Italia chiude l’edizione cartacea, conservando esclusivamente il sito online. Ora, so che per molti di voi questa notizia ha la stessa rilevanza che può avere Montolivo nella rosa del Milan, ed è sacrosanto, per quanto discutibile. Parliamo tuttavia di una delle riviste musicali (e non) più importanti nel panorama mondiale. Il fatto che la redazione italiana abbia deciso di non proseguire con l’edizione cartacea lascia forse più di qualche perplessità, di sicuro molta tristezza. Non perderò tempo a delinearne la storia editoriale, non è ciò di cui mi interessa parlare, e poi hanno creato Wikipedia apposta. Posso parlarvi unicamente di cosa ha rappresentato questo magazine a livello personale. Tra un “Wired” e l’altro e qualche scappatella occasionale con “Ciak”, sono cresciuto a pane e Rolling Stone fin dal lontano luglio 2010, quando cominciai a collezionarlo all’età di 15 anni. Lo vidi per caso tra gli scaffali dell’edicola, la copertina era dedicata ai Pearl Jam e al loro ritorno in Italia, ma se devo dirla tutta, lo presi più per il colore del font nel titolo. Mai avrei immaginato che in quel momento sarebbe nata una meravigliosa storia d’amore durata quasi 10 anni — voglio dire, sono stato più fedele a RS che alle mie fidanzate — con sette o otto uscite saltate in tutto. Numero dopo numero cresceva la voglia di divorare scrupolosamente ogni singolo articolo, anche quelli che non destavano particolarmente la mia curiosità, li ho sempre letti per lo stile, quel taglio che solo chi lavorava in Viale Giulio Richard era capace di regalarmi, e da cui poi ho tratto ispirazione personale per Tangram stesso. Inconsciamente, forse, fu proprio RS a darmi un’ulteriore spinta per intraprendere il mio percorso giornalistico amatoriale ed entrare a far parte di una redazione che è mutata nel tempo, conservando sempre una linea editoriale costante, ma capace di rinnovarsi e catturare sfaccettature inedite da imprimere nero su bianco, come la loro d’altronde. Potrebbe sembrare incoerente come discorso, dal momento che il nostro magazine è nato online, senza mai comprendere un settore di pubblicazione cartacea, ma credo fermamente che per me, come per tutti i miei colleghi, non sarebbe mai nato un progetto del genere senza il background generale delle riviste stampate. Dopotutto è con loro che siamo cresciuti, ci siamo formati sfogliandole, consci che da una pagina all’altra la nostra lettura quotidiana, settimanale o mensile sarebbe terminata, e avremmo atteso compulsivamente la pubblicazione successiva accompagnati da quel dubbio irresistibile su chi sarebbe finito in copertina. Per me Rolling Stone ha sempre significato questo. Non intendo criticare la loro scelta editoriale, che per quanto si possa leggere o pensare, è di matrice economica (e di questi tempi, chi può biasimarli?). Oggi vendere 20.000 copie mensili rappresenta un traguardo più che dignitoso per una rivista su scala nazionale, ma se si guardano i dati, una spesa di 50.000 stampe ogni mese non è altrettanto rose e fiori. “Il mondo va in questa direzione e bisogna seguirlo”, ha commentato l’editore di RS Luciano Bernardini de Pace, spiegando poi come ormai non importa quante copie si vendono, oggi agli investitori interessa il digitale. Accettabile? Sì, nel 2019. Condivisibile? Non è più importante, e lo dico con il cuore in mano. Che il mondo stia seguendo questa strada è tristemente fuor di dubbio, ma da nostalgico di ferro avvezzo alle contraddizioni di chi avrebbe voluto scegliere il proprio periodo storico, penso che ognuno di noi debba sentirsi libero di poter rifiutare percorsi sociali predeterminati. Armatevi di senso critico e prendete le traverse che volete a prescindere dalla strada principale o presunta tale, con lo smartphone in una mano e una rivista nell’altra.

Giorgio Rolfi
26 anni, di cui 19 trascorsi nella musica.  Cinema, videogames e dipendenza da festa completano un carattere non facile, ma unico nel suo genere... Ah, dimenticavo, l'umiltà non è il mio forte. 

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