Ultimo giorno del Festival qui a Dogliani, certamente il più foriero di nostalgia e amarcord pre covid. A intrattenere gli spettatori prima del gran finale ci pensa il meglio del giornalismo d’inchiesta italiano, rappresentato ad hoc da Corrado Formigli (conduttore televisivo e giornalista), Emiliano Fittipaldi (giornalista e vice-direttore del Domani) e Domenico Iannacone (conduttore televisivo e giornalista) intervistati da Annalisa Bruchi. La parte nobile dell’informazione italiana, a voler essere solenni, ma neanche troppo, dal momento che solo sporcandosi le mani e rischiando quotidianamente cause legali (nella migliore delle ipotesi) è possibile avvicinarsi alla realtà dei fatti.

Corrado Formigli, comincio da te, non hai certo bisogno di presentazioni. Come nasce questa tua grande passione per il racconto della realtà nei suoi aspetti più crudi?

CF: Io mi considero un inviato, lo sono stato per tanti anni e mi sono occupato di innumerevoli inchieste e reportage. Nel momento in cui sono diventato conduttore mi sono davvero reso conto di quanto l’inchiesta possa risultare complicata sotto differenti aspetti. Costano soldi e tempo, sono complicate da portare in un talk show, in quanto l’ego e la parola degli ospiti prendono spesso il sopravvento, non a caso il lancio di filmati per approfondire l’argomento trattato li manda in crisi, toglie loro spazio d’intervento. E’ sempre stato uno scontro di esigenze tra inchiesta e talk, sono anni che cerco di conciliare.

E a ben vedere ce la fai…

CF: Ci sto provando nel mio piccolo, penso a quando sono andato a Kobane (Siria, ndr) a raccontare l’Isis e i suoi vari collegamenti con le vicende italiane legate a sbarchi e immigrati, siamo stati tra i primi a farlo in Italia. Non è stato un risultato caduto dal cielo, abbiamo dovuto abituare gli spettatori a questo tipo di informazione, fino a quando non è diventata parte integrante del nostro programma. Oggi in televisione, tolte rare eccezioni, siamo gli unici a occuparcene.

Giorgio Bocca diceva che raccontare la guerra è molto difficile, se si va in posti sicuri, si torna con poco o niente in mano, d’altro canto se si cerca in zone pericolose, si rischia di non tornare affatto.

CF: Togliendo qualsivoglia aura di eroismo negli inviati di guerra, quando mi occupai dell’Isis nel 2017, è cominciata la riconquista di Mosul. Noi abbiamo visto le immagini di quella guerra addirittura sui social, con filmati di droni ecc… Queste immagini venivano accompagnate da emoticon di ogni tipo per applaudire la controffensiva. Pensai subito che quel tipo di racconto così lontano dal dolore presente sul campo era un modo per darla vinta all’Isis, che nel tempo è riuscita a smaterializzare la morte. Bisogna mettersi in gioco e raccontare questi fatti da vicino, in prima linea, solo così siamo in grado di far comprendere ciò che ha significato davvero.

Rimanendo in ambito televisivo, passo il testimone a Domenico Iannacone. Tu hai dato vita a un tipo d’inchiesta morale, dicci di più.

DI: Avendo lavorato molto nei talk, mi sono reso conto che mancava il tempo necessario a raccontare i fatti. Che permettesse di cogliere degli aspetti che non si sposano con una televisione sincopata e accelerata, per il ritmo stesso dei talk. Adesso mandare in onda filmati di approfondimento della durata di 15 minuti sarebbe impensabile. Corrado è stato bravo a mantenere intatto il bisogno di un racconto in grado di trasmettere credibilità al pubblico. E’ importante imporre il proprio tema, soprattutto oggi dove si cambia continuamente argomento, dicendo tutto e niente. Nella televisione la verità non è un fatto secondario. Il contraddittorio fra due politici può tranquillamente essere paragonata ad una chiacchierata al bar. Quel tipo di televisione non mi piaceva più, negli anni ho preso delle decisioni, abbandonando programmi che all’epoca erano in auge.

Scelte rischiose…

DI: Mi davano del matto. Negli anni ho capito che l’inchiesta pura era quella che entrava nella morale, e che le permettesse di emergere. Sembrava un’idea folle da portare in televisione, ma piano piano ha attecchito, e la gente col tempo ha imparato ad amare I Dieci Comandamenti, confluito poi nel programma che conduco adesso, Che Ci Faccio Qui.

Nelle tue inchieste ho notato che preferisci ascoltare, assumendo una posizione secondaria e lasciando spazio al racconto delle immagini e delle persone.

DI: I tempi televisivi devono corrispondere ai tempi reali. Gran parte dei reportage si sono nutriti di elementi del cinema, il dialogo, l’ascolto, la pausa stessa. Tutto questo aiuta lo spettatore a immedesimarsi maggiormente. Censurare le emozioni attraverso tagli frenetici è una sorta di manipolazione visiva, ed è un male. Per quanto riguarda i costi di cui parlava prima Corrado, la mia azienda vorrebbe una trasmissione di qualità, ma girata in tre giorni.

Un po’ alla “cotto e mangiato”…

Tutto questo ha portato ad un abbassamento del livello generale. Dietro a un reportage di un’ora ci sono nottate. Io devo portare un prodotto in grado di anticipare i tempi di 5–6 mesi, quali saranno gli argomenti predominanti attorno a cui ruoterà l’opinione pubblica e non? Anche quello è un grande sforzo. Non c’è più il tempo necessario per un lavoro di questo genere.

E arriviamo a Emiliano Fittipaldi per quanto riguarda la carta stampata. L’uomo che con il bestseller Avarizia ha scoperchiato gli affari finanziari e immobiliari del Vaticano, oltre al suo ultimo scoop sulla villa di Renzi. Tu nasci con l’inchiesta, e adesso ti conosciamo tutti per il lavoro che hai fatto su L’Espresso e per il tuo passaggio recente al Domani di Stefano Feltri. Vorrei capire qual è il tuo metodo di lavoro e come nasce l’inchiesta.

EF: Il presupposto principale è la curiosità. Il giornalista deve costantemente farsi domande. E’ ciò che mi ha permesso di far uscire gli scoop più importanti. Non bisogna confondere l’inchiesta giornalistica con la cronaca giudiziaria, nel primo caso il lavoro del giornalista è autonomo, mentre la seconda riporta sul giornale il contenuto del lavoro di polizia e magistrati.

Bisogna interpretare le dichiarazioni, non semplicemente metterle in prima pagina con un virgolettato. Si deve andare a vedere se quelle dichiarazioni sono reali piuttosto che semplici parole al vento. Attraverso un lavoro lungo e soprattutto costoso, si cerca di raccontare i vari retroscena attraverso fonti autorevoli e non solo. In Italia è molto difficile, si tratta di un paese che storicamente non è molto abituato a questa tipologia di giornalismo. Uno dei motivi per cui si fa poco giornalismo d’inchiesta sono certamente i costi. Un’inchiesta come il Watergate non sarebbe possibile, perché all’epoca Woodward e Bernstein hanno avuto la possibilità di lavorarci per due anni consecutivi, tempi improponibili nel giornalismo contemporaneo.

In molti casi capita anche che gli editori tendano a scoraggiare iniziative di questo genere…

CF: Sicuramente è vero che ci sono molti meno finanziamenti, specialmente quest’anno con i tagli dovuti alla situazione generale. Ma l’inchiesta si può fare. Smettiamola di pensare che gli americani siano più bravi di noi, è semplice provincialismo. In Italia è pieno di ragazzi molto più veloci nel lavoro rispetto al passato. Da parte nostra bisogna avere il coraggio di contrapporsi civilmente alle aziende per le quali lavoriamo. Durante il covid ci è stato vietato di avvicinarsi agli ospedali per il rischio di contagiarsi e trasmettere il virus e qui si va a creare un problema morale. Allora di chi è l’informazione? Per chi lavoriamo? Raccontare cosa stava succedendo negli ospedali con le terapie intensive era fondamentale, in quel momento tutelavamo un bene pubblico, la consapevolezza di ciò che stava succedendo. Noi abbiamo fatto tutto il possibile per filmare e documentare, nonostante i divieti, altrimenti avremmo mancato di rispetto al nostro mestiere. Dobbiamo cercare di essere costantemente una spina nel fianco.

EF: Io sono d’accordo, ma il fatto che il giornalismo d’inchiesta sia in una fase di debolezza è la pura verità, tanti bravi colleghi preferiscono occuparsi d’altro, e va benissimo, semplicemente scelgono un linguaggio meno verticale, rompendo meno le scatole al potere, evidentemente gli conviene.

La carta stampata dal canto suo ha trovato un altro metodo. Se non riesce a perseguire l’inchiesta per cause economiche, si scrivono libri autonomamente, nel tempo libero, anche impiegandoci anni.

EF: C’è un grande problema nel recepire il racconto complesso da parte del pubblico, è come se un pezzo del paese avesse deciso di non approfondire la notizia. Certamente le inchieste sono complicate, ma ci sono degli studi in merito che confermano la perdita di attenzione dopo dieci minuti, come se il lettore si scocciasse improvvisamente, senza andare avanti. E’ responsabilità di un intero clima culturale che non agevola il nostro lavoro.

AI: Bisogna considerare che proveniamo da 15–20 anni di una televisione uniformata, e quando si crea una linea di superficialità, pur con rare eccezioni, significa che si ha educato il telespettatore a recepire quel tipo di materiale. C’è stato un livello culturale che ha abbassato notevolmente la qualità generale da entrambe le parti. Ci siamo accontentati di rimanere in superficie, senza scavare. Tutto questo non ha fatto bene alla televisione…

…Nonostante ci siano figure televisive di spicco che hanno avuto un notevole successo senza scendere a compromessi qualitativi, come voi due, per cui non è sempre vero.

CR: Io adesso sento il bisogno di alzare costantemente l’asticella, perché bisogna cercare di rieducare il pubblico a un certo tipo di prodotto. Chiaramente vivo di ascolti, ma dobbiamo essere disposti a rischiare, andando anche contro le aziende come dicevo prima. Molto spesso ci sono possibilità di investimento e approfondimento che non vengono sfruttate dai grandi enti televisivi.

Però c’è anche bisogno di investire nell’educazione a un determinato mestiere, per essere poi in grado di crescere e coltivare nuovi talenti. Forse si è scelto di investire in un altro tipo di prodotto televisivo rispetto al vostro negli ultimi anni, ma alla fine sono scelte.

CR: Si devono proteggere questi ragazzi, creando una rete televisiva esclusivamente pagata dal canone, senza pubblicità, che funga da vivaio per le nuove generazioni.

Grazie a tutti per la partecipazione.

Giorgio Rolfi
26 anni, di cui 19 trascorsi nella musica.  Cinema, videogames e dipendenza da festa completano un carattere non facile, ma unico nel suo genere... Ah, dimenticavo, l'umiltà non è il mio forte. 

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