Dalle memorie di Matthew Perry all’epidemia di Oxycontin che ha travolto l’America

In realtà non un solo sorso, ma parecchi: tutti quelli che servono per finire una bottiglia. Racconta così Matthew Perry, nel suo memoir edito nel 2022, a proposito del vino frizzante a buon mercato che per la prima volta gli aveva fatto ingenuamente conoscere l’ubriachezza: nel giardino sul retro della sua casa in Canada, a 14 anni, insieme a due amici.  

Seimila riunioni degli alcolisti anonimi, quindici cicli di disintossicazione e trent’anni di sedute psicologiche dopo Perry è morto, lasciando in eredità un libro che parla della sua vita. Una vita di brutale intensità, nella fama e nella fatica: Love, Friends, and the Big Terrible Thing narra del successo e della coesistenza forzata con la dipendenza dall’alcol, dalle medicine e dalla droga, dell’influenza di questa sui rapporti sociali e lavorativi, dedicando pagine intere a vulnerabilità non scontate che fanno di Perry una creatura di Hollywood molto più umana di quello che la patina della celebrità a volte oscura.

«Mi hanno raccontato che il medico non aveva alcuna intenzione che il tizio di Friends morisse sul suo tavolo operatorio, e mi ha fatto il massaggiato cardiaco per cinque minuti interi, battendo i pugni sul mio petto. Se non fossi stato nel cast di Friends, avrebbe smesso dopo tre minuti? Friends mi ha salvato la vita?». Perry riconosce più volte, raccontandosi, il privilegio della sua posizione sociale, e ammette liberamente di aver stimato l’ammontare delle spese per curarsi: oltre sette milioni di dollari. L’attore canadese offre uno spaccato sincero della complicata e solitaria vita stravolta dalle dipendenze, ma leggere la sua storia suggerisce una domanda: e se non li avesse avuti, quei sette milioni di dollari?

Nel 2022 più di 100 mila persone sono morte, negli Stati Uniti, per overdose correlata all’abuso di oppioidi, e le stime per la prima parte del 2023 evidenziano un aumento stabile. Gestire mentalmente numeri così grandi è una sfida, ma basta considerare che San Siro contiene 75 mila tifosi, e che la guerra in Vietnam ha causato, nella totalità dei suoi dieci anni, 58 mila morti.

È quindi facile capire perché il fenomeno venga etichettato come ‘epidemia’, o perché Francesco Costa intitoli La piaga il capitolo in Questa è l’America, dedicato alla crisi della tossicodipendenza negli States: si parla di una persona ogni cinque minuti uccisa da un’overdose. Tuttavia, servono ancora un po’ di numeri per addentrarsi nella prospettiva di chi non ha a disposizione sette milioni di dollari per curare la propria tossicodipendenza. Sono i numeri di chi non è ancora morto, non ufficialmente, ma sopravvive a un’esistenza di orrore: le persone senzatetto che ‘risiedono’ sui marciapiedi delle metropoli americane, soprattutto quelle della California.

Il 23 febbraio 2022, nel quartiere di Tenderloin a San Francisco 7,800 persone non sono riuscite a trovare un riparo per la notte, e solo l’area Skid Row di Los Angeles ha registrato una percentuale più alta, arrivando a più di 75 mila persone senzatetto nel 2023. Questi sono due dei più famosi quartieri-baraccopoli della West Coast, dove persone senza casa, lavoro e futuro vagano tutti i giorni in mezzo a centinaia di tende da campeggio, o rifugi di fortuna, trascinandosi alla ricerca di qualcosa che possa anestetizzarli dalla realtà: gli oppioidi. In una spirale malata di consequenzialità, la causa principale degli abusi di sostanze (86%, secondo la United States Conference of Mayors) è data dal trovarsi a vivere in strada, e a sua volta sono centinaia di migliaia le storie di chi è arrivato a non avere più una casa poiché la tossicodipendenza ha demolito le proprie reti sociali, economiche e familiari.

La maggior parte di loro cerca una droga chiamata Fentanyl. Cinquanta volte più potente dell’eroina, cento volte più forte della morfina, la quantità di polvere per una dose fatale può stare in equilibrio sulla punta di una matita. Oppioide sintetizzato per la prima volta nel 1960 per la gestione del dolore nei pazienti oncologici e come anestetico nella chirurgia, il Fentanyl ha raggiunto da circa vent’anni il commercio illegale di droga, importato dalla Cina e dal Messico come sostituto economico dell’eroina. Facile e veloce da produrre, la ricetta del Fentanyl include pochi e reperibili ingredienti, e questo ne ha fluidificato la sua commercializzazione negli US. Nel 2017, la DEA (l’agenzia federale antidroga statunitense) ha sequestrato solo nella città di New York 193 kg di Fentanyl: quantitativo sufficiente a uccidere l’intera popolazione della città, undici volte di fila.

Recentemente il TIME ha pubblicato un reportage di James Nachtwey e Paul Moakley, The Opioid Diaries: immagini, video, stralci di interviste delle voci delle vittime di questa emergenza nazionale, ovvero tutte le persone che sono costrette a orbitare attorno alla tossicodipendenza, non solo chi ne soffre. Lo schema delle storie è quasi sempre lo stesso: l’inesorabile scivolare nella dipendenza di chi ne è anche consapevole, ma non può, non riesce a farci nulla, la preoccupazione crescente delle forze dell’ordine e la pressione nel gestire un fenomeno implacabile. Conoscenti di una vita e vecchi compagni di scuola finiscono nella spirale della tossicodipendenza, e tutto quello che gli agenti di polizia e gli organi sanitari possono fare è soccorrerli durante l’ennesima overdose e procurare loro il Narcan, nome commerciale del Naloxone, un farmaco che blocca istantaneamente gli effetti del sovradosaggio degli oppioidi.

Le domande che ci si può porre, a questo punto, sono due: come ci sono arrivati gli Stati Uniti a una crisi di questa portata? E perché, prima che questa storia venisse a galla, gli unici europei a conoscenza di questo disastro sociale oltreoceano erano quelli che in America ci erano stati, come turisti, e per sbaglio erano finiti in qualche quartiere-baraccopoli?

Rispondere alla seconda domanda è più facile: solo recentemente i media e i politici hanno cominciato a visualizzare la tossicodipendenza come un problema di sanità pubblica. Il volume di copertura delle notizie relative alla crisi degli oppioidi è aumentato grazie alla digitalizzazione. Oltre a questo, innumerevoli studi hanno concentrato il loro focus su come i media abbiano raccontato e tuttora raccontino la dipendenza da oppioidi, di come la quantità e la qualità dell’informazione possa influenzare l’opinione pubblica, e quindi anche quella delle istituzioni governative. Nei giornali e nei notiziari televisivi si criminalizza di meno la tossicodipendenza e si discute di più dell’aspetto sociale dell’epidemia, del Naloxone, delle possibili soluzioni alle strutture sanitarie nazionali, dei programmi di riabilitazione, di quelli che forniscono siringhe sterili, dell’allestimento di luoghi sicuri dove poter consumare sotto monitoraggio di un medico.

Rispondere alla prima domanda, invece, è tutto un altro paio di maniche: come hanno fatto gli Stati Uniti ad affrontare una crisi degli oppioidi? Affrontandone un’altra, di crisi: quella del dolore. O, come è stata chiamata in America, la ‘war on pain‘.

Nel campo della medicina oncologica, negli Anni ‘90 abbiamo assistito a un grande progresso nel rilevamento precoce del cancro, che, unito a una popolazione sempre meno fumatrice, ha portato a un’importante diminuzione del tasso di mortalità dei pazienti. Questo fattore va unito a un più generale aumento dell’età media della popolazione, in una società alle porte del nuovo millennio e in un’America industrializzata, figlia del dopoguerra dei babyboomer. Molte più persone vivono più a lungo, il che, senza dubbio, è positivo. Ma vivere più a lungo significa anche affrontare inevitabilmente più acciacchi, potenziali incidenti, più interventi chirurgici e, di conseguenza, più dolore.

È un concetto forse difficile da afferrare, nel 2023, ma la resistenza e l’accettazione al dolore erano qualcosa di perfettamente amalgamato nella cultura medica e mediatica, così come l’ignorare le sofferenze fisiche conseguenti a un dolore cronico. I medici guarivano le malattie e accompagnavano le persone affette dal cancro, ma non indugiavano sulla percezione soggettiva del dolore del paziente. Ciò accadeva abitualmente non perché fossero sadici, ma semplicemente perché il dolore non era classificato fra i criteri di giudizio di una consulenza medica. Questo era largamente aiutato dal velo dellaopiophobia, ovvero una condivisa attitudine a trattenersi dal prescrivere analgesici con base oppioide visto l’alto tasso di dipendenza che poteva procurare un antidolorifico di questo tipo. Solo nel 1996 il dottor James Campbell, presidente della American Pain Society, si riferirà per la prima volta al dolore come il quinto parametro vitale, dando potere alle svariate campagne delle associazioni di medici che durante gli Anni ‘70 e ’80 hanno cominciato a denunciare la cattiva e scarsa gestione del dolore dei pazienti, mirando a incoraggiare la valutazione standardizzata e il trattamento dei sintomi del dolore con oppioidi efficaci come la morfina.

In questo scenario di incalzante cambiamento culturale nel nuovo orizzonte della lotta al dolore si collocano una famiglia e la sua azienda farmaceutica: i Sackler e la Purdue Pharma. Generazione di imprenditori con le mani in svariate aziende, i Sackler, nell’ottica della reintroduzione nella cura del dolore oncologico (ma soprattutto nel mercato) di un farmaco capace di scardinare la stigmatizzazione della morfina, negli Anni ‘90 hanno finanziato un esoso progetto, che si è concretizzato con la creazione dell’Oxycontin. Si tratta di un altro analgesico derivato dall’oppioide ossicodone, cugino chimico della morfina e dell’eroina, molto più potente della prima ma anche molto più sicuro, poiché ne evita tutti gli spiacevoli effetti collaterali. L’associazione mentale della ‘morfina come farmaco pesante da usare come ultima risorsa poiché può causare dipendenza’ sembra quindi sbiadirsi con l’arrivo di una piccola pillola di antidolorifico che, associata a un nome nuovo, ha reso il farmaco neonato una potenziale tabula rasa su cui costruire un’identità più innocua e accessibile; qualcosa, insomma, di cui non avere paura. La Purdue Pharma di Richard Sackler ha sentito il profumo di una grossa opportunità commerciale: indirizzare l’Oxycontin verso il solo dolore oncologico sarebbe stato però un errore, poiché la personalità poco minacciosa del farmaco ne avrebbe risentito. C’era un mercato più grande di quello del cancro: quello del dolore, di ogni tipo. L’ondata revisionista sulla terapia del dolore cronico ha dato una spinta eccezionale all’Oxycontin, e le conferenze pro-oppiodi di tanti spigliati medici come il giovane Russell Portenoy e Kathleen Foley hanno portato al registro di un aumento del 75% del consumo di morfina nel 1994.

Dopo una trattativa di undici mesi e quattordici giorni con la FDA, l’agenzia federale per la protezione della salute pubblica, quest’ultima ha proceduto con l’approvazione del testo del foglietto illustrativo dell’Oxycontin e l’autorizzazione del suo rilascio sul mercato. Seguono un’ingegnosa campagna di rimodellamento dell’immagine del farmaco, di persuasione di centinaia di medici americani e di avvicinamento informale al regolatore della FDA Curtis Wright, e nel gennaio del 1996, insieme ad una tremenda tormenta che ha inghiottito la East Coast statunitense, oltre alla neve, hanno cominciato a fioccare le ricette di Oxycontin. Da questo momento la parola chiave diventa «vendere»: uno squadrone di giovani e attraenti informatrici farmaceutiche cominciano a vistare gli studi dei medici di base e chiunque possa influenzare la prescrizione dell’Oxycontin. La persuasività e un aggressivo spirito di vendita vengono insegnati a menadito a tutta la falange del reparto vendite, che servendosi di letteratura medica apparentemente seria suggerisce la ventata rivoluzionaria della Purdue. «Meno dell’1% dei pazienti che assumono Oxycontin sviluppa una dipendenza», è il motto che ripetono martellanti i rappresentanti della Purdue, basandosi su un particolare studio che cita 4 casi su 11.000 pazienti che hanno sviluppato una dipendenza dopo diversi anni di somministrazione.

Tra le strategie di marketing ci sono la distribuzione di voucher utilizzabili per avere una ricetta gratuita valida 30 giorni, pubblicità di pazienti che testimoniano la loro rinascita grazie all’Oxycontin, cappelli da pesca brandizzati, peluche a forma di compresse e dischi di swing. La commercializzazione dell’ossicodone è quindi cominciata, e i generosi omaggi della Purdue ai medici che decidono di affiliarsi all’azienda, presenziare alle conferenze organizzate in città in riva al mare, e soprattutto prescrivere l’Oxycontin, fanno schizzare le vendite alle stelle. Nel 1997 le prescrizioni di Oxycontin negli Stati Uniti erano 670.000: nel 2002 diventano 6.2 milioni.

Oxycontin Un Sorso Di Baby Duck
Un Sorso Di Baby Duck. Dalle memorie di Matthew Perry all’epidemia di Oxycontin che sta travolgendo l’America

È adesso che comincia la parte brutta della storia: il famoso 1% dello studio, quello che rassicurava sull’altissima improbabilità di dipendenza con l’uso di Oxycontin, si è scoperta essere una manipolazione della verità. Estrapolato dal suo contesto, ovvero da una lettera del dottor H. Jinck al New England Journal of Medicine del 1980 e non uno studio peer to peer, quell’1% descrive la percentuale di fenomeni di dipendenza in pazienti ospedalizzati, ai quali l’Oxycontin è somministrato in modo controllato. Tuttavia, la Purdue Pharma vende l’Oxycontin prescritto dai medici di base: in altre parole, dopo averlo acquistato in farmacia, il farmaco è nelle mani del paziente.

Matthew Perry in Love, Friends, and the Big Terrible Thing racconta cosa succedeva pressoché a tutti quelli ormai assuefatti dagli oppioidi che si presentavano dal medico: «Facevo il mio solito trucco, mi lamentavo per degli acuti dolori addominali anche se in realtà stavo bene, e così mi prescrivevano l’idrocodone, 1800 milligrammi al giorno. Per metterla in prospettiva, se oggi ti rompi un dito e hai un medico gentile, ti prescriverà cinque compresse da 0.5 milligrammi».

I pazienti iniziano quindi ad abusare dell’Oxycontin, scivolando lentamente nella dipendenza. Si scopre inoltre che tritando le pillole si può azzerare il meccanismo a rilascio controllato e liberare una dose massiccia di ossicodone, usandola come droga ricreativa per uno sballo intenso, sniffandola o iniettandola in vena. Del 2000 si registra la prima morte per overdose nel West Virginia, e la situazione dilaga silenziosa in tutti gli Stati Uniti, mentre la Purdue Pharma guadagna 20 milioni di dollari a settimana. Il passo è breve prima che inizi il doctor shopping: i pazienti prendono appuntamento da svariati medici, accumulando ricette per poi rivendere le pillole, spacciando per autofinanziare la propria tossicodipendenza e inaugurando la diffusione del mercato nero dell’Oxycontin e la costruzione delle ‘cliniche del dolore’, distributori illegali di farmaci gestite da medici senza scrupoli.

I Sackler sono a conoscenza del fenomeno dilagante, ma si tenevano ben distanti dall’ammetterlo, simulando ingenuità quando il procuratore federale del Maine Jay McCloskey, nel 2000, avverte i medici dello Stato dei pericoli dell’Oxycontin. «L’unica differenza con l’eroina è che l’Oxycontin te lo prescrive il medico», denunciano i genitori di ragazzi morti per overdose in tutto il paese, e si diffondono storie di ladri di Oxycontin che svaligiano farmacie per procurarsi le pasticche.

La Purdue Pharma affronta la situazione difendendo la propria produzione, colpevolizzando chi abusa del farmaco e se lo procura clandestinamente. Patrick Radden Keefe ne L’impero del dolore compara perfettamente la logica libertaria dei Sackler, portando l’esempio dei produttori di armi che non si assumono la colpa delle morti correlate: le pistole non uccidono le persone; sono le persone a uccidere le persone. La responsabilità è individuale e del consumatore, così chi abusa del farmaco non è una vittima, ma un carnefice.

Barry Meier e Francis X. Clines, reporter investigativi del New York Times, riescono a suscitare interesse nazionale verso la crisi con articoli e pubblicazioni audaci, e la FDA comincia a disegnare mappe dove è evidente che il numero di accessi al pronto soccorso per overdose combacia con le aree dove l’Oxycontin è più venduto, dove lavorano i cosiddetti toppers, i dieci migliori rappresentanti delle Purdue Pharma.

L’epilogo di questa storia è meno trionfale di quello che qualsiasi eroica storia americana vorrebbe: due procuratori federali della Virginia, Randy Ramseyer e Rick Mountcastle, ottengono il sostegno per aprire un file ufficiale contro la Purdue, ma l’azienda ha risposto dotandosi di costosi avvocati vicinissimi ai funzionari del Dipartimento di Giustizia. Con una decisione a porte chiuse, la formulazione di accuse penali contro tre dei dirigenti della Purdue- Howard Udell, Paul Goldenheim e Michael Friedman – non è stata appoggiata a Washington. Nella primavera del 2007 i tre hanno accettato di dichiararsi colpevoli solo di etichettatura ingannevole, e pagare una serie di multe dell’ammontare di 600 milioni di dollari. Il giudice dell’udienza pubblica, vista la partecipatissima audience di familiari di vittime dell’Oxycontin arrivate da ogni angolo degli Stati Uniti, ha concesso ad alcuni di intervenire. Una donna del Florida ha mostrato l’urna con le ceneri del figlio diciottenne, un’altra si è fatta portavoce della comunità che aveva portato avanti attivamente una campagna per inchiodare la Purdue.

Il processo in Virginia non ha scomposto affatto l’umore dei Sackler: l’ammissione di colpevolezza e un accordo firmato per impegnarsi a migliorare la propria condotta sono state mosse di facciata, mentre l’azienda ha continuato a fiorire nel redditizio commercio degli oppiodi. Nel 2010 Purdue Pharma ha accettato di introdurre una nuova versione dell’Oxycontin, più difficile da frantumare per mantenere conservato il meccanismo a rilascio controllato, ma la nuova Oxycontin OP è arrivata troppo tardi e con troppa poca forza per contrastare l’epidemia di tossicodipendenza innescata dal suo predecessore.

Da allora sono state avviate oltre mille cause legali contro l’azienda da parte dei governi statali e locali. Gli stati di tutti gli USA hanno presentato richieste di risarcimento per oltre due trilioni di dollari nel caso del fallimento dichiarato in seguito dalla Purdue Pharma. La filantropia tanto anelata dai Sackler, che negli anni dell’impero farmaceutico aveva finanziato, fra gli altri, l’università di Yale e il Metropolitan Museum of Art, è stata riconosciuta come riciclaggio di reputazione derivante dai profitti acquisiti dalla vendita di oppiacei. A partire da maggio 2023, almeno venti istituzioni hanno abbandonato il nome Sackler, tra cui la National Gallery di Londra, smettendo di accettare donazioni.

Col tempo, faccia della ‘war on pain’ della Purdue Pharma si è dunque ribaltata, rivelando la lotta alla crisi degli oppioidi: oggi ci sono miliardi di dollari stanziati per formare il personale sanitario, per elargire fondi a strutture in grado di aiutare le comunità, e la opiophobia fra i medici è tornata in una nuova forma di consapevolezza e attenzione nel prescrivere i farmaci.

Secondo i media americani, però, ad aggravare la crisi nell’ultimo anno ci sarebbe una nuova combinazione: mischiare il Fentalyn con il Tranq. È il nome ‘di strada’ dello Xylazine, un sedativo e analgesico per uso veterinario. Il cocktail dei due provoca abrasioni estese e necrosi delle estremità di chi se lo inietta, e questo mix porta le persone a uno stato di semi sedazione, lasciando corpi distesi sui marciapiedi in posizioni innaturali o addirittura in piedi, col busto e gli arti ciondolanti e la testa inerte: non a caso è stata battezzata Zombie Drug. ♦︎


Illustrazione di Lara Milani

Sofia Calvo
Non so descrivermi perché non ho ancora ben capito chi sono, ma nel frattempo ho scoperto un paio di cose: che scrivere è l'unica cosa che mi soddisfa davvero, che amo i giochi di parole e i mercatini dell'usato, e che mi diverte intavolare discussioni facendo alle persone domande stupide, tipo "I serpenti hanno la coda?"

    You may also like

    Lotta
    Ritratti

    Io sono Lotta

    Carlotta Sarina, nome d’arte e di battaglia: Lotta. Attivista, musicista e performer teatrale, ...

    Leave a reply

    Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

    More in Società