“How I Became An Elephant” di Tim Gorski e Synthian Sharp è un documentario che affronta le due facce della passione: attraverso la passione dell’adolescente americana Juliette West per gli animali, viene denunciata la passione perversa dei turisti per l’animale esotico – in questo caso l’elefante – e il business che la alimenta. L’incontro tra Gorski e West darà vita a questo documentario di denuncia contro lo sfruttamento degli elefanti per fini turistici.

“Ciao, sono Juliette e gli elefanti sono la mia passione”, così Juliette West si presenta ai suoi pari quando tiene lezione nelle scuole. Da anni ormai, l’adolescente americana si dedica alla sensibilizzazione delle persone allo sfruttamento degli elefanti per fini turistici. Questo desiderio di educare i suoi pari nasce dopo il ritorno da un viaggio in Thailandia, intrapreso innanzitutto per educare se stessa su cosa si nasconde dietro il business turistico thailandese. Da questo viaggio ne è nato un documentario.

Questo è un documentario di denuncia contro un business turistico perverso che spettacolarizza la sofferenza dell’animale, la normalizza, con l’inevitabile conseguenza di renderla invisibile.

UNA PASSIONE PERVERSA

Cosa si nasconde dietro alle passeggiate in sella agli elefanti? West ha cercato di rispondere a questa domanda grazie all’aiuto di Sangduan Lek Chailert, fondatrice del santuario per elefanti Elephant Nature Park a Chiang Mai, nel nord della Thailandia.

La terza settimana di novembre, chiunque abbia un elefante registrato deve andare a Surin, Thailandia, per aiutare il governo a promuovere la città attraverso feste che vedono gli elefanti come protagonisti. Tuttavia, questi raduni non hanno nulla a che fare con la celebrazione della sacralità dell’animale; l’unico obiettivo è di sostenere il business turistico.

Dopo il mese di novembre, gli elefanti fanno ritorno a Bangkok per lavorare nelle strade e nei locali frequentati dai turisti. Lavorano ininterrottamente anche per dodici ore di fila, drogati per essere gestiti meglio e con scorte di acqua limitate per evitare che facciano i bisogni in strada. I mahut – i “custodi” degli elefanti, coloro che li addestrano e controllano – utilizzano un bullhook – strumento costituito da un gancio fissato ad un manico – per guidare l’elefante, colpendolo ripetutamente, facendo attenzione a colpire principalmente le ferite già aperte.

Un business perverso, appunto, che trae profitto dalla sofferenza dell’animale. Un business alimentato dai sorrisi e dalle continue richieste dei turisti, che hanno contribuito al consolidamento di questa realtà agghiacciante. Turisti sempre in cerca della novità; una ricerca del nuovo che costringe gli elefanti ad imparare a dipingere, a giocare a calcio e a fare acrobazie. Insomma, l’animale è obbligato a trasformarsi in un essere umano.

Il paradosso dell’antropomorfizzazione e dell’oggettificazione dell’animale, perché se da un lato il business turistico punta proprio a trasformare l’elefante in un essere umano, dall’altro lo considera un mero strumento di appagamento dei desideri del turista.

LA DANZA DELL’ORRORE

 Avete presente quei movimenti ripetitivi tipici degli elefanti tenuti in cattività? Una danza dell’orrore, mi verrebbe da chiamarla, perché il riflesso della frustrazione causata da una vita in catene: questo comportamento è conosciuto con il nome di stereotipia.

Secondo il dizionario Treccani, la stereotipia è uno “schema comportamentale rigido, compiuto in maniera ripetitiva e continua, senza alcuno scopo o funzione apparente […] Nel mondo animale, le stereotipie si riscontrano prevalentemente in condizioni di cattività e quasi mai in situazioni naturali […] Si ritiene che le condizioni di cattività privino gli animali di bisogni fondamentali e che i comportamenti stereotipati derivino proprio da tale frustrazione”. È il riflesso, quindi, del malessere dell’animale che noi esseri umani tipicamente associamo alla schizofrenia.

Queste sono solo alcune delle tante componenti di un puzzle agghiacciante i cui tasselli danno vita alla drammatica realtà in cui gli elefanti sono costretti ad esistere.

PARTIAMO DALL’EDUCAZIONE

Sangduan Lek Chailert ha una missione ben precisa: quella di salvare gli elefanti dai loro custodi e di educare le persone, anche (o soprattutto) gli allevatori stessi. Chailert ha fondato il santuario Elephant Nature Park proprio con l’obiettivo di dare una casa agli elefanti che è riuscita a salvare. Una di questi è Ratree, un’elefantessa che porta i segni di una vita passata in un circo e che, nonostante sia una dei pochi fortunati “ospiti” del santuario, sarà sempre accompagnata dai traumi di una vita spesa in catene.

Juliette West rimane ispirata dalla missione di Chailert, ed educare i suoi pari diventa quindi anche la sua missione. Dopo il suo viaggio in Thailandia ha infatti cominciato a diffondere la cultura di questi animali, e a raccontare la fine che molti devono fare a causa di un business alimentato dal desiderio di novità da parte del turista. West ispirerà anche un movimento, nella speranza che le pluralità di voci di chi, come lei, si batte per questa causa, diventeranno sempre più forti.

NoSignal Magazine

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