Si chiude col botto la nona edizione del Festival della TV qui a Dogliani, con la piazza gremita in attesa del gran finale (e anche di una persona in particolare, ça va sans dire…).

In questi tre giorni si è parlato degli argomenti più disparati, dall’importanza dell’ambiente alle sfide editoriali, passando per il dating online fino ad arrivare alla cucina in tv, l’appuntamento annuale in Langa non delude le aspettative. Ma se è vero che da nove anni a questa parte si finisce spesso a scherzare insieme agli ospiti sulle loro simpatie calcistiche con battute e sarcasmo immancabili, quest’edizione ha finalmente soddisfatto tutti i malati cronici del gioco più serio del mondo, ospitAndo sul palco Pierluigi Pardo, (telecronista sportivo e conduttore TV) noto ai più per le sue telecronache passionali e la conduzione del programma Tiki Taka su Canale 5, insieme alla conduttrice sportiva più in voga del momento, Diletta Leotta, intervistati da Roberto Pavanello (giornalista e redattore web de La Stampa).

Il nostro compito oggi è chiudere in bellezza e lasciare intatto l’entusiasmo per il prossimo anno, e lo facciamo parlando di calcio, sport tutto sommato poco seguito in Italia…

PP: Sicuramente la cosa bella del calcio, in Italia come nel mondo, è l’impossibilità di non averne un’opinione a riguardo, a prescindere dal fatto che si segua o meno.

E meno ne capisci, più sei convinto di saperne!

PP: Bisognerebbe capire chi ne capisce davvero, chi parla solo di calcio non sa nulla di calcio, per citare Mourinho. E’ un tema generale, anche la politica nel bene e nel male ha sempre strumentalizzato questo sport.

Quest’anno le nostre vite sono cambiate drasticamente, nel lavoro come nel tempo libero. In che cosa è cambiato il vostro lavoro?

DL: Raccontare il calcio dal campo senza il pubblico non è la stessa cosa, ma si possono trovare risvolti positivi, per non dire curiosi, come ad esempio riuscire ad ascoltare i dialoghi e i discorsi fra giocatori e con l’allenatore durante le partite. Si è venuto a creare un momento molto intimo, anche nelle interviste dopo il fischio finale.

PP: Quando a giugno è ripreso campionato ero abbastanza demotivato, pensavo che non mi sarei divertito più di tanto. La mancanza dei tifosi si è fatta sentire. Alla fine poi la magia di questo gioco meraviglioso ha preso il sopravvento, ti parlo da grande appassionato che guarda anche la serie B inglese. In fin dei conti il pubblico è presente in ogni caso, penso alle strade di Napoli completamente invase dalla gente dopo la vittoria in Coppa Italia contro la Juventus.

Proprio la Juventus, in collaborazione con la regione Piemonte, è stata la prima squadra ad abbozzare un piano di reintroduzione del pubblico allo stadio. Siete d’accordo con questa presa di posizione?

DL: Senza ombra di dubbio, rivedere i tifosi allo stadio sarebbe un sogno per tutti.

PP: Io posso anche dirti di essere d’accordo, ma i primi a esprimersi dovrebbero essere gli esperti del virus, medici, scienziati, virologi… Io spero succeda il prima possibile, sono ottimista di natura. Vorrei solamente evitare di correre rischi inutili, perché poi il bello stadio è lo stare insieme vicini, alle volte senza neanche rispettare il posto assegnato, giusto o sbagliato che sia, ma non sarebbe il calcio che conosciamo.

Come è iniziato il vostro viaggio all’interno del mondo calcistico?

PP: Nell’estate del 1996 stavo terminando l’Erasmus a Londra, c’erano gli Europei in TV e sapevo che Tele+ stava cercando nuovi telecronisti, così inviai un VHS con sopra una mia telecronaca registrata della partita Inghilterra — Scozia, terminata fra l’altro con il gol del grande Gascoigne.

Nei giorni seguenti il telefono non squillava, poi una mattina mia madre mi disse che avevano chiamato per cominciare a farmi collaborare. Da quel momento è iniziata una lunga gavetta.

Eri un ragazzino…

PP: Avevo 22 anni, ero piuttosto ribelle all’epoca. Fu bellissimo, decisi di mollare il lavoro per il quale avevo studiato alla facoltà di economia, Stream TV mi propose il famoso posto fisso, per citare Checco Zalone.

DL: Ascoltando le parole di Pierluigi, è indubbio che nella vita ci si chieda spesso quale strada si debba percorrere, si valutano tante opzioni. Io faccio il lavoro che ho sempre sognato, ma inizialmente ho intrapreso una strada diversa, mi sono laureata in giurisprudenza. Crescendo penso che tante porte chiuse in faccia aiutino a capire cosa davvero si vuole fare nella vita. Non bisogna accelerare i tempi pensando di essere sulla strada sbagliata, basta avere pazienza e aspettare il momento giusto, credo che le opportunità arrivino davvero per tutti.

Sei sicuramente una delle esponenti di una rivoluzione in ambito sportivo, oggi in televisione le donne non fungono più da arredamento, ma ne sono parte integrante. L’unico settore dove forse siamo ancora indietro è quello della telecronaca.

PP: Entriamo nel discorso delicatissimo della parità fra uomo e donna, di cui si è parlato molto negli ultimi anni. Io sinceramente non credo nelle quote rosa o blu, credo nel talento personale e nelle competenze.

Diletta, quanto è difficile stare in TV a raccontare questo sport?

DL: E’ un gioco di ruolo, io, Pierluigi e tanti altri professionisti abbiamo caratteristiche diverse che giocano per la stessa squadra e per portare a casa il risultato. Poi su Dazn non ci si prende troppo sul serio, c’è un clima sereno e conviviale, dove tutti si danno una mano, se contiamo che esiste da soli due anni, credo sia stato fatto un lavoro incredibile, oltre ogni aspettativa.

PP: Per me è facile fare questo lavoro, perché non mi annoia mai. Poter fare le telecronache ti fa sentire illusoriamente protagonista insieme ai giocatori, non c’è nulla che potrebbe appassionarmi di più, infatti a mio avviso il peggior difetto che possa avere un telecronista è la mancanza di passione.

Non c’è il rischio che diventiate schiavi del personaggio?

PP: Secondo me esiste l’onestà intellettuale, se sto facendo la telecronaca di una partita noiosissima o se devo per forza vendere un prodotto spacciandolo per ciò che non è, allora il rischio c’è, senza dubbio. D’altro canto la passione di un tifoso di una squadra meno blasonata è identica a quella del tifoso del Real Madrid, ed è mio dovere essere motivato anche durante le partite con meno seguito.

DL: Anche la personalità è un elemento chiave, mi piace sentire un determinata persona perché so che dirà determinate cose a cui mi ha abituato, in televisione come in radio. Attraverso le parole devi riuscire a trasmettere passione, vitalità e adrenalina.

Avete dei maestri?

PP: Di sicuro Bruno Pizzul, che ho anche avuto modo di conoscere, ha detto spesso cose molto belle sul mio conto e lo ringrazio pubblicamente. Nel suo lavoro da telecronista ha sempre avuto un’empatia naturale, e quando lo conosci te ne rendi conto. Anch’io non sono poi molto diverso da come mi vedete in televisione.

DL: Non ne ho alcuni in particolare, ce ne sono stati tanti e tante. Ho sempre cercato di fare un sunto e prendere determinati elementi da uno e dall’altra per farli miei, sia nella vita privata che nel lavoro. In televisione si vede come sei, non stai recitando, ecco perché più che prendere a esempio modelli di comportamento, è importante cercare sempre di essere se stessi.

Pierluigi, devo darti atto di essere un telecronista che non lascia trasparire simpatie di alcun genere.

Non sei tifoso di nessuna squadra?

PP: Potrei dire l’Arsenal, ma poi mi prendono in giro perché imito Marianella… Ci sono alcuni miei colleghi che hanno tifato molto per una squadra da bambini, ci sono giornalisti che inevitabilmente tendono a simpatizzare per la propria squadra. In realtà poi un professionista deve tifare per se stesso e per il suo lavoro. Poi possiamo avere rapporti personali nella vita privata, ad esempio Cassano è una persona a cui voglio molto bene, il rapporto si è intensificato nella seconda parte della sua carriera… Nel nostro ambiente si diventa tifosi atipici, il tifoso vero della propria squadra del cuore è un “mestiere” troppo nobile, si va allo stadio, si spendono soldi, si sta male quando la squadra perde…

Bisogna essere bravi, e soprattutto professionisti nel separare la fede calcistica dal lavoro.

PP: Molti politici si fingono tali per strumentalizzare il calcio e guadagnare consensi, e questo non va bene. Essere tifosi è una cosa seria, ne parla anche Califano nella sua canzone Il Tifoso.

Come ti senti dopo aver abbandonato Tiki Taka?

PP: Non sono poi molto dispiaciuto, è una decisione che avevo preso da tempo e che forse avrei anche dovuto prendere un anno prima. Arrivo da una stagione record dal punto di vista degli ascolti, siamo sull’8% di share. Io non ho mai avuto polemiche con nessuno, anzi, è stata una scelta condivisa con l’azienda, e siamo rimasti in buonissimi rapporti. Faccio un grande in bocca al lupo a Piero Chiambretti, sicuramente ha tutte le carte in regola per tenere alto il nome del programma. Ora mi piacerebbe intraprendere nuovi percorsi, anche se tolte le telecronache, non so ancora cosa farò.

Diletta, tu lo condurresti un programma come Tiki Taka?

DL: Avendolo condotto per soli otto minuti, mi sono davvero resa conto di quanto sia un programma difficile da gestire, con tanti collegamenti al di fuori dello studio, Pierluigi è stato davvero in gamba in questi anni. Ha dato un carattere forte a Tiki Taka grazie alla sua grande personalità, quando penso al programma, mi viene subito in mente lui.

Come mai questo racconto calcistico è così divertente? Funzionerebbe anche solo mettere la partita in televisione senza telecronache e interviste?

DL: No, raccontarlo è fondamentale, la gente si sente più coinvolta, specie in un anno del genere, con tutto quello che è successo. Il coinvolgimento dei tifosi a casa non è mai stato più importante, e le interazioni aumentano sempre di più.

PP: Credo che si debba sempre cercare qualcosa di nuovo e interessante per la narrazione di questo sport, anche se poi tutto ruota intorno alla partita, senza quella diventa difficile.

Chi vince il campionato quest’anno?

PP: E come faccio a saperlo? (ride) Manca un mese alla fine del mercato, possono ancora esserci degli stravolgimenti importanti. Sarà una bella lotta fino alla fine tra Inter e Juventus, quest’ultima tuttavia la vedo ancora favorita.

Diletta, tu sei stata a Sanremo quest’anno al fianco di Amadeus. Qual è la differenza più grande fra lo stadio e l’Ariston?

DL: E’ stata una sensazione molto particolare, ho sentito fin da subito un’atmosfera accogliente, l’Ariston in fin dei conti è abbastanza piccolo, anche se in televisione può sembrare il contrario. Allo stadio c’è un ambiente totalmente diverso, poi con i tifosi diventa assordante e spesso non senti neanche quello che stai dicendo davanti alle telecamere.

PP: Poi Sanremo trae grande giovamento dai social, in grado ormai di eventizzare qualsiasi cosa tramite i commenti e le condivisioni, specialmente su Twitter. Diventa una sorta di secondo schermo traendone maggiore interazione. Rimanendo sulla TV generalista, è cambiato totalmente l’approccio da parte di chi sta a casa sul divano. Ormai esistono Dazn, Amazon Prime, Netflix, Sky… è tutto assolutamente fruibile in qualsiasi momento. Se vogliamo guardarci uno sketch di trent’anni fa o gli highlights di Italia — Germania, in due secondi li troviamo digitando su Google.

Ormai guardo tante partite sullo smartphone in treno, a me questa tipologia di fruizione piace molto, difficilmente tornerei indietro.

DL: Questo è vero, parlando dei social ci sono tre elementi essenziali da tenere in conto: accessibilità, flessibilità e linguaggio. Devono essere in grado di arrivare a tutti, specie per quanto riguarda i contenuti televisivi.

Però il calcio non può avere l’immediatezza dei social, almeno in diretta. La partita dura novanta minuti più recupero, e quelli sono.

PP: Parlando con Marco Foroni, si è reso conto che per suo figlio di undici anni i novanta minuti delle partite sono tanti, e i ragazzini in generale si distraggono facilmente. Viviamo in un’epoca in cui la soglia di attenzione è completamente diversa rispetto al passato, è diminuita drasticamente.

DL: Quello che cerchiamo di fare a Dazn è parlare di tantissimi argomenti diversi in rapida sequenza nel minor tempo possibile, proprio per questo motivo.

Qual è il vostro stadio preferito?

PP: L’Old Trafford a Manchester. E’ uno stadio tipicamente inglese, ma già declinato per una capienza da 70–75000 posti, ed è incredibile.

DL: Il Gewiss Stadium a Bergamo. Si racconta la partita in un clima davvero magico che si viene a creare con tifosi e giocatori, sembra che si annullino totalmente le barriere anche con noi giornalisti.

E’ l’ora dei tajarin, grazie a tutti.

Giorgio Rolfi
26 anni, di cui 19 trascorsi nella musica.  Cinema, videogames e dipendenza da festa completano un carattere non facile, ma unico nel suo genere... Ah, dimenticavo, l'umiltà non è il mio forte. 

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