Greta Thunberg, nell’agosto del 2018, all’età di 15 anni, decise di non presentarsi a scuola ed iniziare uno sciopero per manifestare contro l’indifferenza della politica riguardo al tema ambientale.

Oggi, venerdì 15 marzo 2019, tutto il mondo manifesta affinché sia finalmente portata all’attenzione di tutti il problema dei cambiamenti climatici: è indetto lo “sciopero globale della scuola” che ha raccolto adesioni da più di 150 paesi.

Serve manifestare? L’ingente mobilitazione degli ultimi anni di ragazzi che si stanno battendo su questa tematica dice di sì. Stiamo assistendo ad un movimento che non porta sul capo vessilli politici, ma una semplice richiesta umanitaria: rispetto per il pianeta, il nostro pianeta.

Sono anni che i climatologi denunciano un abuso delle risorse ambientali compiuto da noi umani che esula da un normale cambiamento climatico. Sono anni che si punta il dito contro i colossi aziendali che tanto contrastano lo sviluppo delle energie rinnovabili, pur di tenere stretto tra le loro mani il monopolio petrolifero e del carbone fossile.

Oggi però non si può più continuare a fingere che nulla stia cambiano, né a demandare il compito alle future generazioni: perché il futuro si abbatterà su noi millenials e il devasto del pianeta sui nostri figli.

Nel 2030 (fra appena undici anni) la temperatura globale si potrebbe alzare più di 1,5 gradi. Un’inezia se pensiamo che 1,5 gradi ci permettono di passare dal maglioncino in cotone alla camicetta primaverile; una catastrofe se si realizza che i rapporti sui cambiamenti climatici prevedono l’innalzamento del livello dei mari, estati caldissime, uragani, migrazioni in massa da aree troppo calde e ormai desertificate e invivibili: un inferno a cielo aperto, previsto entro il 2050.

Siamo scampati alla profezia dei Maya, scamperemo anche a questo?

Come cantano gli Eugenio in via di Gioia: “Nel 2050 non esisteranno più le Maldive/Poco importa, andremo in Sardegna a festeggiare le vacanze estive”.

In Italia un quinto del territorio è a rischio desertificazione, mentre un terzo della popolazione vive in aree minacciate dall’innalzamento del livello del mare. Abbiamo già perso miliardi per i danni causati all’agricoltura.

Nella penisola fino ad ora la mobilitazione studentesca è stata carente, senza parlare dell’assenza totale di presa di posizione da parte dei politici.

Possiamo fare di più. Dobbiamo fare di più.

E non siamo soli. Anzi, forse siamo gli ultimi. La protesta è partita dalla Svezia, per poi espandersi nei Paesi Bassi, in Belgio, Australia, negli Stati Uniti, in Germania, nel Regno Unito, in Francia.

L’associazione statunitense Our Children’s Trust ha sporto denuncia per conto di ventun ragazzi tra 11 e 12 anni, portando avanti la tesi secondo cui le attuali politiche del governo mettano a rischio la vivibilità del pianeta e che un pianeta vivibile sia un diritto umano.

In Olanda due terzi dei giovani fra 18 e 25 anni pensa che il cambiamento climatico sia una minaccia per l’umanità e confidano nelle soluzioni collettive più di quanto facciano le generazioni precedenti. Le azioni individuali non bastano: occorre che il cambiamento arrivi dal governo e dalle aziende, ma questi ultimi possono essere convinti a cambiare modo di agire. E chi li convince siamo noi.

Nel 2016, in Olanda si sono riuniti i presidenti delle sei sezioni giovanili di tutti i partiti e, sotto la guida di Jan Terlouw, ex vicepremier liberalsocialista, hanno scritto una dichiarazione congiunta a otto mani, che hanno spedito al governo olandese spronandolo ad adottare politiche più coraggiose riguardo all’impatto ambientale. I presidenti della “sezione adulti” cristiano-democratici e liberali non si sono lontanamente avvicinati a portare avanti istanze simili, ma la sezione giovani sì.

In Belgio, da gennaio, le manifestazioni studentesche si ripetono ogni settimana: 30mila manifestanti che scendono in piazza a difendere il proprio pianeta.

Come ha twittato il meteorologo Gerrit Hiemstra “l’esperienza di vita può non valere nulla quando bisogna elaborare soluzioni che non esistono ancora”.

Ricordiamoci che coloro che per primi si sono messi in gioco, in prima linea a protestare, sono ragazzi che non avevano ancora l’età per votare.

Ricordiamoci che non è un’ideologia a portare avanti l’allarme per il cambiamento climatico.

Ricordiamoci che è un dato scientifico (rapporto IPCC 2018 ): la scienza non ha nulla che fare con l’ideologia. Non in una democrazia.

Quindi facciamo sentire la nostra voce, che non è singola, ma al contrario fa parte di un coro sempre più forte e variegato: ci stiamo battendo per una giusta causa, ci battiamo per noi stessi e per tutti noi.

“Progresso, ma non evoluzione. Sai come si chiama? Estinzione”.

NoSignal Magazine

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